Io e la musica. Incontro con Sonia Bergamasco


Io e la musica. Incontro con Sonia Bergamasco

giovedì 13 novembre 2014

Dedicato al 9 novembre


Omaggio a Mstislav Rostropovich
Allora la vita si è riunita

 Violoncellista e direttore d'orchestra, difese pubblicamente Solzenicyn nella Russia sovietica e perse così la cittadinanza e fu esiliato. A sorpresa, come un comune musicista di strada, eseguì la suite per violoncello di Bach davanti al muro di Berlino mentre veniva abbattuto. Si schierò apertamente, rischiando ancora in prima persona, contro il tentato colpo di stato nei confronti di Gorbaciov. Per il suo impegno a favore dei diritti umani nel marzo dell'anno scorso l'Università di Bologna gli ha conferito la laurea ad honorem in Scienze politiche


«Il muro ha diviso la mia vita in due e ha lacerato il mio cuore. Ho sempre suonato nella parte orientale di Berlino, quella sovietica. Ma da quando sono stato cacciato, ho potuto suonare solo nella parte ovest, senza più poter tornare di là. Al crollo del muro, però, la mia vita si è riunita». L’im­magine di Mstislav Rostropovich, lo straordinario violoncellista e direttore d’orchestra russo morto al termine di una lunga malattia lo scorso 27 aprile, rimarrà per sempre legata ad una foto famosa in tutto il mondo: lui che suona il suo violoncello davanti al muro di Berlino che si sgretola. Era l’11 novembre 1989. «Ero a Parigi quando arrivò la notizia. La mattina dopo partii subito e all’aeroporto di Berlino presi un taxi per correre al Muro. Mi misi a suonare un brano di Bach per violoncello solo, seduto su una sedia chiesta in prestito al portiere di un edificio. Attorno a me si radunò una piccola folla, ma io non suonavo per loro, suonavo per me stesso, per esprimere a Dio la mia gratitudine».

Alla fine dell’improvvisato concerto, con il suo prezioso Duport Stradivari del 1711 in grembo e riconciliate le due parti del suo cuore, chiude gli occhi e piange. Era nato il 27 marzo 1927 a Baku, in Azerbaijan, sulla riva occidentale del Mar Caspio, in una famiglia di musicisti di origine ebraica. A soli quattro anni comincia a suonare e studia pianoforte, violoncello e direzione d’orchestra al Conservatorio di Mosca. I suoi primi concerti, a 15 anni, li da durante la guerra e vince il Concorso musicale di Praga e Budapest. Da subito, le sue esecuzioni trasmettono una passione di vita, oltre che di musica. Molti compositori del calibro di Prokof'ev, Shostakovich, Britten gli dedicano pagine scritte appositamente per lui. Nel 1950 gli viene conferito il Premio Stalin, la massima onorificenza dell’Unione Sovietica. Pochi anni dopo, sposa il primo soprano del teatro Bolshoi di Mosca, Galina Visnevskaja, con la quale stabilisce un lungo e meraviglioso sodalizio affettivo e musicale, accompagnandola spesso al pianoforte. Dalla loro unione nascono due figlie, Olga (violoncellista) ed Elena (pianista). È un concerto alla Carnegie Hall di New York nel ‘56 che lo consacra interprete internazionale. Diventa primo violoncello dell’Or­chestra di Stato sovietica e professore di violoncello al Conservatorio di Mosca. Troppo lungo sarebbe l’elenco dei successi, delle splendide esibizioni, delle magistrali incisioni e delle orchestre dirette. Ciò che conta è come la sua professione di musicista fosse stata da sempre espressione della sua missione umanistica. Quello che Rostropovich fa con il suo strumento è raccontare la storia di quei musicisti sommi eppure reietti da regimi ottusi di ogni colore ed ai quali era stata negata la dignità di una patria. La storia del suo maestro Shostakovich, le cui sinfonie erano state proibite addirittura con una legge e che «viveva nel terrore, temendo sempre ritorsioni sui suoi figli». Quella di Prokof'ev che, nei giorni in cui lo aveva ospitato nella sua dacia, Rostropovich aveva visto piangere ogni mattina per la fame. «So quanto i principi fondanti del comunismo fossero diversi dal sistema che ha governato il mio paese. Ma il regime sovietico li ha deformati al punto da trasformarli nell’opposto», dichiarerà in seguito. Incita i giovani compositori a fare come lui, a cercare, al di là della tecnica, di descrivere il proprio mondo. Ma non usa solo la musica per urlare il suo dissenso e la sua infaticabile difesa dei diritti umani. La censura si accanisce contro di lui quando pubblicamente difende (e segretamente ospita a casa sua) lo scrittore dissidente Alexander Solženicyn, cui il regime sovietico aveva tolto la cittadinanza russa. Nel ‘70, Rostropovich scrive una lettera aperta al leader del Pcus Breznev protestando contro le limitazioni della libertà di espressione. «In Russia avevo tanti amici, ma quando in Occidente fu pubblicata la mia lettera a favore di Solženicyn, questi amici, quasi tutti, incontrandomi, voltavano la faccia e guardavano i muri, studiando meticolosamente il colore dell’intonaco». Caduto in disgrazia, espulso dal teatro Bolshoi, con il divieto di fare tournée all’estero e di dirigere orchestre, nel ‘74 è costretto a lasciare la sua patria: «Mi buttarono fuori e persi ogni contatto con le persone a me più care». Dagli Stati Uniti, dove aveva riparato con la moglie e le due figlie e dove, dal ’77, guida la National Symphony Orchestra di Washington, intraprende una campagna a favore della libertà di un altro dissidente, il fisico Andrei Sakharov. Quattro anni dopo, apprende dalla televisione di essere stato privato della cittadinanza. «Il giorno seguente bussò alla nostra porta un messo dell’ambasciata sovietica. Mi rifiutai di consegnargli il passaporto, dicendo che, se necessario, lo avrei messo all’asta per provvedere al sostentamento delle mie figlie». Sedici anni dura il suo esilio: Rostropovich diventa cittadino del mondo, ascolta i giovani musicisti e li sostiene, invitandoli a suonare con lui o eseguendo opere di perfetti sconosciuti. Poi, nell’agosto del 1991, si reca d’improvviso a Mosca, senza il visto, per protestare contro il tentativo di colpo di stato contro Mikhail Gorbaciov. «Privarlo della cittadinanza –scrive l’ex premier russo- fu come se, per affermare la grandezza di uno Stato, quello stesso Stato togliesse dal suo basamento un architrave essenziale perché l’edificio rimanesse in piedi. Una vera e propria contraddizione, come era stata quella di collocare tra i reietti della società sovietica un genio della fisica come Andrei Sakharov». Quando finalmente torna nella sua patria, non lo fa solo per suonare. Fino a pochi mesi prima di morire, Rostropovich lotta per la creazione di fondazioni in favore di bambini e ragazzi della sua Russia, animando strutture “in aiuto dei giovani musicisti” a Mosca e Vilnius, capitale della Lituania. Come ambasciatore dell’Unesco, promuove una campagna di vaccinazioni contro l’epatite B, diretta a tre milioni di bambini dell’ex Unione Sovietica. Testimonial dell’Aism (Associazione italiana contro la sclerosi multipla), per il suo “impegno a favore dei diritti umani”, l’Università di Bologna gli conferisce una laurea honoris causa in Scienze politiche. L’ultimo compleanno lo ha festeggiato al Cremlino. Tutta la Russia lo acclama e lo stesso presidente Vladimir Putin gli rende finalmente omaggio, definendolo «un leale difensore dei diritti umani e un intransigente combattente per gli ideali democratici». ‘Slava’ (soprannome che in russo vuol dire Gloria), che salutava tutti con un’energica stretta di mano e i tre baci alla russa; che amava suonare per i semplici, per i dimenticati contadini e operai dei più remoti angoli della Russia (unica imposizione del regime che trovava in lui il più ampio consenso), è sepolto a Novodevichy, accanto agli amici Shostakovich e Prokof'ev. Aveva un’immensa fiducia nell’uomo e nella sua capacità di rendere il mondo migliore attraverso la bellezza.

Anna Cepollaro

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