Io e la musica. Incontro con Sonia Bergamasco


Io e la musica. Incontro con Sonia Bergamasco

venerdì 13 febbraio 2015

Fra qualche giorno (21 febbraio) sarebbe stato il suo compleanno... Grazie, Maestro!






Roberto Leydi

Buddismo e Società n.104 maggio giugno 2004
Omaggio a Roberto Leydi
Il fondatore della moderna etnomusicologia italiana
di Anna Cepollaro


Ha insegnato al Dams di Bologna fin dalla sua costituzione. Critico musicale dell’Avanti e dell’Europeo, ha avuto un ruolo fondamentale nella nascita del folk revival italiano, riscoprendo la musica di tradizione orale. Nella sua lunga carriera di saggista, ricercatore e docente, ha collaborato con Luciano Berio, Dario Fo, Moni Ovadia

Li hanno chiamati selvaggi, poi primitivi e infine, per cercar di togliere ogni accezione negativa o spregiativa, "gli altri". Gli altri, cioè quelli comunque diversi da noi, per aspetto fisico ed eredità culturale, i popoli di altri continenti che l'Europa ha incontrato e poi dominato, facendone oggetto d'osservazione e di studio anche per i suoi interessi coloniali. Ma "altri" vivono anche fisicamente accanto a noi: sono quelle donne e quegli uomini, marginali rispetto alla cultura delle egemonie o da essa esclusi, che formavano un tempo la plebe, o il popolino, o il volgo e che oggi si preferisce raccogliere entro concetti ora astratti, ora convenzionali e ora ideologici di popolo, o di mondo popolare, o di classi popolari, o magari di classi subalterne». Nell'introduzione al libro L'altra musica, Roberto Leydi indica il percorso che lo ha portato a ribaltare la prospettiva culturale, nella quale, per una volta almeno, sono i "bianchi", i depositari della tradizione colta, ad essere gli "altri".
Roberto Leydi, nato nel 1928, fondatore della moderna etnomusicologia italiana, che ha insegnato al DAMS di Bologna fin dalla costituzione del corso di laurea, ci ha lasciato una sera di febbraio di un anno fa. Aveva settantacinque anni. Discreto e ridondante insieme, il riserbo lo ha accompagnato nella vita, nel lavoro e anche in questo ulteriore tragitto (e certo lui l'avrebbe notato, ironico). Infatti, quello stesso 15 febbraio in tutto il mondo scendevano in piazza migliaia di persone per manifestare per la pace e, come Umberto Eco ha sottolineato in un suo articolo, i giornali non parlarono che di questo, accorgendosi solo qualche giorno dopo che, in silenzio e senza clamori, era andato via un personaggio davvero particolare e indimenticabile. Eco ricorda anche che Roberto, suo grande e vecchio amico, gli aveva detto un giorno: «Non bisogna mai morire di ferragosto, non se ne accorge nessuno».

 



Leydi ha avuto un ruolo fondamentale nella nascita del folk revival italiano. Critico musicale dell'Avanti e dell'Europeo, si è dedicato alla musica di tradizione orale fin dagli anni '50, riscoprendo anche il canto politico e di protesta che altri grandi, come Diego Carpitella e Alan Lomax, avevano escluso dalle loro raccolte. E proprio in questi tempi di cadute di muri, la sua lungimiranza sorprende. Era il 1964 quando al Festival dei due mondi di Spoleto, durante il suo spettacolo "Bella ciao", l'esecuzione di O Gorizia tu sei maledetta aveva provocato la reazione di alcuni militari presenti in sala perché la canzone definisce "traditori" gli ufficiali di Caporetto. La cantava Michele Straniero e tante volte l'aveva cantata Sandra Mantovani, la moglie di Leydi, insieme al Nuovo Canzoniere Italiano. E il muro di Gorizia, quello di mattoni e quello di pregiudizi, ce ne ha messo di tempo, ma alla fine è caduto. Altri hanno scritto della sua lunga carriera di saggista, ricercatore, docente... Per me, sua ex-studentessa, che bella quella sensazione di sorpresa quando da una copertina di un disco, da una bibliografia, da un discorso alla radio, sbucava il nome di Roberto. E non solo musica popolare: suoi i testi di Mimusique n. 2 di Berio e suo (con Berio e Maderna) Ritratto di città, il primo lavoro italiano di musica elettronica e concreta. Luciano Berio, Dario Fo, Moni Ovadia e tanti altri i nomi famosi con i quali ha collaborato. Ma negli episodi della sua vita che raccontava a noi giovani studenti non c'era spazio per i nomi illustri. Anzi, i suoi occhi scintillavano e tutti i suoi sensi si attivavano quando parlava della gente semplice e numerosa che aveva ascoltato, con la quale era riuscito a entrare in contatto in maniera quasi magica e che aveva, infine, registrato. Ricordava ogni nome e ogni nota eseguita dal tale contadino (informatori si chiamano in gergo etnomusicologico), in quel tal posto, in quella certa data. E il suo appassionato racconto aveva sempre un commento musicale, canticchiato, accennato: lui non cantava, eppure la voce l'abbiamo presa da lui. Cosa non succedeva nelle nostre orecchie, nel nostro cervello e, finalmente, nel nostro cuore di musicisti, d'improvviso liberi da restrizioni, certi di aver già intuito che qualcosa doveva pur esistere oltre le note ben eseguite e le mani ben posizionate sugli strumenti.
Il giovedì, giorno del suo ricevimento all'università, era un giorno di festa. Dopo le chiacchierate accademiche (il suo discorrere era come il suo insegnare e viceversa), venivano talvolta le "etnocene". Ogni volta a casa di qualcuno diverso, proveniente da una diversa regione italiana e con diverse tradizioni, anche e soprattutto culinarie. Era il momento in cui il vissuto si mescolava alla nozione, ciò che avevi appreso a lezione prendeva vita e il professore tornava, sempre e ancora, il giovane ricercatore sul campo, con enormi microfoni in mano, cercando di cogliere l'attimo fuggente. Fuggente, ma non perso. Le donne e gli uomini registrati da Roberto Leydi non moriranno mai. Il suo parlare di musica ti trascinava in un'epoca, racconto fantastico ma vero e pieno di indicazioni preziose. Racconti di campi e raccolte, di protesta e lavoro; aneddoti di donne che diventavano maghe e conservavano il remoto pagano sotto l'ampia e semplice veste del presente. Finivi per preferire il fruscio di un settantotto giri al vinile e poi, negli anni, all'asettica perfezione del compact disc. Alcuni ne hanno ricordato la leggerezza e lo spirito critico che emanava dalla inaudita capacità di collegare la musica senza confini alla storia, alla letteratura, alla politica. Altri, nei dolorosi giorni della perdita, hanno raccontato le visite nella sua casa di Milano, «una specie di Sagra della primavera, un senso di giovinezza per quel modo di orchestrare le policromie di sceltissimi oggetti popolari su coloratissime pareti. Tutto un sistema di preferenze e avversioni, che a lezione avevamo pensato soltanto musicali, era stato lì già applicato anche al mondo delle cose», scrive Isa Melli, una dei primi dieci allievi in quel lontano 1971 della nascita del DAMS.
«È come voler camminare su una gamba sola» dice oggi Sandra Mantovani. «Non mi manca in casa, dove stava ben poco. Ma ho sempre elenchi di cose da dirgli, manca il corrispettivo del discorso. Dopo cinquant'anni insieme, poi, mi ha sorpreso l'affetto di allievi ed ex allievi che mi hanno scritto o telefonato: con loro il suo lato piemontese, chiuso, si apriva. Negli ultimi tempi era stanco, ma non voleva andare in pensione perché sapeva che gli sarebbero mancati i ragazzi. Il 4 febbraio era andato a Bologna per firmare una tesi di laurea. Dopo pochi giorni è morto». Proprio lo scorso anno, il rettore Pier Ugo Calzolari gli aveva assegnato un premio speciale alla carriera. «Mica male!» era la sua risposta a chi gli chiedeva come stava. Per tanti un maestro, che, insegnandoti a vivere la musica senza pregiudizi, tracciava dentro la tua anima la possibilità di vivere la vita stessa senza paraocchi. Grazie Roberto.

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